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Vangelo del giorno
Martedì 16 Aprile 2024
In quel tempo, la folla disse a Gesù: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”».
Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».


(Gv 6,30-35)
Bibbia – CEI 2008
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Per citazione
(es. Mt 28,1-20):
Per parola:

In un recente post “ A proposito del sinodo diocesano” avevamo riportato la prima parte di una riflessione sul rapporto tra potere decisionale nella Chiesa e clericalismo… a completamento riportiamo la seconda parte della riflessione di Salvo Coco apparsa sempre su “ Vino Nuovo

Nella nostra riflessione sul rapporto tra clericalismo e potere ecclesiale, ci eravamo lasciati con una serie di domande, le quali non emergono da una mera convenienza sociologica o di capitolazione dinanzi alle pretese della modernità.

La fraternità e la comune uguaglianza di ogni battezzato che abbiamo evocato ha radici ben piantate sul terreno del NT. 

E’ il caso di richiamare i passi evangelici che sostengono tale basilare dignità di ogni discepolo di Cristo? Crediamo proprio di no.

Le prime comunità cristiane testimoniano una prassi ispirata all’uguaglianza ed alla libertà. E purtroppo sappiamo che dopo un paio di secoli tale condizione “comunionale” fu interrotta perchè, intorno al III/IV secolo, il clericalismo introdusse il regime di sacralità e la chiesa si scisse in due classi: il clero da una parte ed il “laos” dall’altra. Una situazione che perdura sino ai nostri giorni.

Sappiamo che il clericalismo si è ispirato a modelli extraevangelici. Si ispirato alle forme imperiali e monarchiche del potere, dove c’erano i dominatori ed i dominati, coloro che comandano e coloro che ubbidiscono. Si è ispirato alle famiglie patriarcali, dove ci stanno i maggiorenni ed i minorenni, i padri ed i figli, i maschi e le femmine. Si è ispirato alla proprietà mondana, dove ci stanno i possidenti-padroni ed i non possidenti-schiavi. Eppure le parole di Gesù sono chiarissime: “Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti. Anche il Figlio dell’uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti” (Mt 10,42-45).

Cosa significano queste parole ai fini del nostro discorso? Esse possono giustificare una esclusione dei laici dal codeterminare le decisioni nella chiesa? In altre parole: la gerarchia clericale può essere intesa come un organo monarchico-assolutistico che si auto-assegna il privilegio di decidere in maniera esclusiva? Il servizio cui allude Gesù è un dominium o è un ministerium? La struttura ecclesiale è una struttura di dominio o è una struttura diakonica ove ogni relazione è ispirata al servizio reciproco? Il termine gerarchia (introdotto circa mezzo millennio dopo Cristo con Dionigi l’Areopagita) non si presta quantomeno a fraintendimenti?

Eppure tale termine (gerarchia=potere sacro) fu usato (e lo è tuttora), si è irrobustito nel corso del tempo sino alle perversioni medioevali e moderne e si è allontanato sempre più dal Vangelo e dalla prassi delle comunità dei primi secoli. I pastori (ovvero gli episkopoi ed i presbiteroi) divennero sempre più padroni e come tutti i padroni trattavano da servi i fedeli. E come tutti i padroni avevano il diritto di decidere. E’ indubitabile: il clero ha assegnato a sé stesso il potere di prendere decisioni in nome di tutta la chiesa. Ed ha chiamato tale potere potestas jurisdictionis. Ed ha legato indissolubilmente tale potere allo stato clericale ossia alla potestas ordinis. Far parte dei chierici significa due cose: avere il potere di santificare ed avere il potere di decidere. Tale concezione non è conforme al messaggio di Gesù Cristo, eppure la chiesa, tutti noi Popolo di Dio siamo stati condizionati da tale concezione. E lo siamo ancor oggi nonostante i deboli segnali che sono pervenuti dal concilio. Segnali che nei decenni successivi al concilio sono stati piuttosto silenziati che sviluppati.

Riassumiamo. Tutti nella chiesa sono uguali e le differenze carismatico-ministeriali non inficiano tale fondamentale uguaglianza, non inficiano la fraternità, non inficiano la responsabilità, non inficiano il fatto che tutti sono maggiorenni sotto l’unico Padre. La separazione/sacralizzazione della chiesa in due stati di vita (ovvero il clericalismo) ha deturpato il volto della chiesa (Francesco denuncia ripetutamente “i clericalismi, che annullano il carisma laicale e anche rovinano la faccia della Santa Madre Chiesa”).

Il veleno del potere ha cancellato il genuino servizio di ogni carisma-ministero, specialmente di quei carismi-ministeri che sono chiamati al governo delle comunità. Questi hanno perso ogni dimensione di servizio perché si sono intossicati con il potere. Hanno inteso la loro autorità come un potere (ed un potere sacro !). Hanno giustificato tale potere con le dottrine e le norme canoniche e nella realtà dei fatti i chierici non sono a servizio dei fratelli e delle sorelle. Il potere che si sono auto-assegnati esclude la comunità dal codeterminare ogni decisione e riserva al clero ogni atto di governo.

Se viceversa il potere (inteso come possibilità di decidere) è partecipato ad ogni battezzato, ciò significa che ogni battezzato può decidere perché membro della chiesa e titolare della dignità di figlio di Dio, capace di ricevere un dono dallo Spirito. Ecco che solo allora il munus regale di ogni battezzato verrà preso sul serio. Gli accenni contenuti nei documenti conciliari verranno ad essere sviluppati. Ed il magistero si disporrà a recepire convintamente le acquisizioni della teologia moderna.

Nella pratica, così come sussistono degli elementi di difficoltà nel coordinare il sacerdozio ordinato con il sacerdozio battesimale, allo stesso modo sussistono elementi di criticità nella coesistenza della regalità del clero con la regalità dei laici. Scontiamo infatti una plurisecolare dicotomia, c’è da sottoporre a critica una lunga tradizione, ma è innegabile che il cammino procede verso una più ampia ed attiva partecipazione dei laici alle decisioni nella chiesa.

Nuove ecclesiologie costituiranno il quadro entro cui si collocherà la codeterminazione dei laici alle decisioni ecclesiali. Quest’ultime non saranno più esclusivamente appannaggio dei chierici. Già si discute di scindere la potestas ordinis dalla potestas jurisdictionis. Gli studi esegetici, la riflessione dei teologi ed il lavoro dei canonisti più aperti procede speditamente. E’ questione di tempo (anni o decenni ? chi può saperlo ?): anche il magistero (un magistero riformato) accoglierà le elaborazioni dei teologi una volta che la coscienza dei mali del clericalismo penetrerà sempre più nella chiesa. E via via gli ostacoli del clericalismo saranno superati.

Nel futuro esso apparirà come un mero fenomeno residuale. Non ci saranno ricette valide per tutte le realtà e per ogni contesto geografico (la creatività dello Spirito Santo è l’altra dimensione fondamentale cui si deve ispirare ogni riforma ecclesiale). Eppure sin d’ora si possono ragionevolmente prevedere una serie di elementi: una codeterminazione dei laici nelle elezioni e nelle nomine ecclesiali, nei concili, nell’amministrazione dei beni, nell’ordinamento e nel diritto canonico, una direzione collegiale della chiesa ai vari livelli ed una sinodalità effettiva e concreta di uomini e donne. Si possono prevedere: meccanismi di “checks and balances” per escludere ogni monopolizzazione del potere, uno spostamento del centro decisionale dal centro alla periferia, una riforma radicale della curia romana, una limitazione (abolizione) dei nunzi apostolici, una riforma del servizio petrino, ecc. ecc.

Apparirà chiaro che tutte queste riforme non saranno un tributo che la chiesa deve pagare all’evoluzione dei tempi, né trattasi di audaci e temerarie innovazioni avulse dal contesto del Vangelo. Ma sono un ritorno “attualizzato” alla autentica tradizione della chiesa. Proprio l’elezione del vescovo (faccio un esempio) è emblematica del ritorno alla prassi cristiana dei primi secoli. Appare sempre più evidente dagli studi condotti dagli esegeti che la chiesa non è una società ineguale formata da due classi separate di individui, non è una gerarchia clericale esclusiva ed escludente, ma il Corpo di Cristo, il Popolo di Dio, il Tempio dello Spirito. Ed è perfettamente normale che, come avveniva un tempo, tale corpo elegga i suoi servitori preposti a sovrintendere le comunità (vescovo significa infatti sovrintendente o sorvegliante).

Mi piace concludere questo mio contributo con ottimismo. L’ottimismo di chi ripone la sua speranza nella gioia del Vangelo e nell’opera dello Spirito. Il domani della chiesa affonda le sue radici nel suo passato più vero: “Quod omnes tangit, ab omnibus tractari et approbari debet” (citazione di Y.M. Congar in Revue historique de droit français et étranger 36 – 1958).

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