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Vangelo del giorno
Martedì 16 Aprile 2024
In quel tempo, la folla disse a Gesù: «Quale segno tu compi perché vediamo e ti crediamo? Quale opera fai? I nostri padri hanno mangiato la manna nel deserto, come sta scritto: “Diede loro da mangiare un pane dal cielo”».
Rispose loro Gesù: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo».
Allora gli dissero: «Signore, dacci sempre questo pane».
Gesù rispose loro: «Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!».


(Gv 6,30-35)
Bibbia – CEI 2008
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Per citazione
(es. Mt 28,1-20):
Per parola:

Susanna Tamaro [Corriere della Sera, 2 agosto 2010  ]

di SUSANNA TAMARO

Poche settimane fa il Papa ha istituito un nuovo organi­smo, nella forma di «Pontificio Consiglio», con il compito di pro­muovere una rinnovata evangelizzazione nei Paesi che stanno vivendo una «pro­gressiva secolarizzazione» e una sorta di «eclissì del senso dì Dio». Da cosa, da chi dipende questa «grave crisi del senso del­la fede cristiana e dell’appartenenza alla Chiesa» di cui parla Benedetto XVI e a cui questo nuovo dicastero vorrebbe porre rimedio?

Da anni mi trovo a vivere in una posi­zione di confine. Non ho avuto, in fami­glia, un’educazione cattolica, anzi, provengo da un ambiente ateo, anticlericale e massone, ma avendo una natura inquie­ta, nel corso della mia vita, ho fatto un lungo cammino spirituale che mi ha riav­vicinato al Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe e di Gesù Cristo. Non è stato un cammino lineare né sempre luminoso, la via interiore, infatti, è un continuo confronto con il male. Se la mia fede esi­ste — e resiste — è perché continuo a studiare, a leggere, a interrogarmi e ad accettare anche giorni in cui mi sembra di non credere.

Negli ultimi dieci anni molte altre per­sone della mia generazione hanno intra­preso un percorso simile, lasciandosi alle spalle ideologie politiche, new age e va­ri movimenti orientali per tornare alla fe­de del Vangelo ma, nella maggior parte dei casi, questi figli prodighi non hanno trovato nessun padre ad attenderli. Così, dopo un periodo di grande trasporto, non trovando interlocutori né accoglien­za, si sono nuovamente allontanati.

La Chiesa infatti — nonostante i molti dibattiti tra laici e credenti continua a essere autoreferenziale a respingere chi è in ricerca e a diffidare profondamente di chi ha fatto un percorso spirituale di­verso. Come mi disse un giorno un prete irritato — al quale stavo spiegando il sen­tito e tardivo riavvicinamento alla fede di un’amica di cui avrebbe dopo poco cele­brato il funerale — «gli ultimi mesi non contano niente, bisogna stare da sempre nella Chiesa», dimostrando così un’am­mirevole pienezza evangelica.

Malgrado tutti i discorsi sull’apertura, sulla nuova evangelizzazione, la Chiesa continua a essere una struttura solo appa­rentemente accogliente, accoglie giusta­mente i poveri, si prodiga con generosità per alleviare le sofferenze degli ultimi, ma spesso, in questa bulimia dì buone azioni, si dimentica delle inquietudini delle persone normali. Mancano i padri e le madri spirituali, persone credibili, che abbiano fatto un cammino, che conosca­no la complessità e la contraddittorietà della vita e che, con umiltà e pazienza, sappiano accompagnare le persone lun­go questa strada, senza giudicare e senza chiedere risultati. Nel padre o nella ma­dre spirituale non c’è niente di nuovo, bensì qualcosa di straordinariamente antico: la sete di un’anima che incontra un’altra anima in grado di aiutarla a cer­care l’acqua. Non occorrono nuovi «input», nuovi dicasteri, nuove sfide, nuovi raduni oceanici. Occorre soltanto ricordarsi che nell’uomo esiste una parte di mistero e che questa parte va nutrita. La natura umana è sempre uguale e, per crescere interiormente, richiede le stesse cose oggi come ai tempi dei padri del de­serto. Se così non fosse, non si spieghe­rebbe il fascino che ancora ha, ad esem­pio, San Francesco che da più di ottocen­to anni continua a parlare e a commuo­verci con le sue parole e la sua vita. San Francesco infatti era un Santo. E cosa vuoi dire Santo? Essere una persona inte­gra, totale, una persona che non ha dop­piezze, fraintendimenti, che conosce so­lo il «sì sì, no no» di evangelica memo­ria.

Sono così la maggior parte delle perso­ne di Chiesa che ci vengono incontro, che parlano dai pulpiti delle parrocchie, in televisione, sui giornali? Hanno sguar­di luminosi? Le loro bocche parlano dav­vero della pienezza del cuore? Sono forze di santità? E se lo sono, perché non arriva­no, perché le loro parole lasciano per lo più indifferenti, se non irritati? Perché non faccio altro che incontrare persone buone, rette, etiche, che si sono allonta­nate per sempre dalla Chiesa dopo espe­rienze deteriori con i suoi rappresentan­ti? Dove «deteriore» non è solo il caso estremo del pedofilo, ma anche quello più semplice del sordido, dell’ignavo, del gretto, comunque del doppio?

Perché, nel cattolicesimo, è concessa questa doppiezza? La bocca si riempie di parole alte, ma la vita, spesso, non le ma­nifesta. La coerenza non sembra essere richiesta. Eppure, dove la coerenza c’è, dove c’è testimonianza della pienezza della vita di fede, le chiese sono piene, i nuovi eremiti sparsi sull’Appennino han­no il problema di gestire il flusso delle persone che ininterrottamente va da lo­ro. Già, perché questi sono tempi di grande inquietudine e di grande ricerca. L’uomo in cammino non si accontenta più di formule, di luoghi comuni, di convenzioni sociali, è molto più esigente, cerca risposte vere e profonde alle do­mande che ha dentro. Questa sete di veri­tà e bellezza non può venire soddisfatta dalla mediocrità delle vite e delle testi­monianze né da una liturgia che ha ab­bandonato il sacro diventando sempre più simile a una sorta di intrattenimento televisivo.

Se una nuova evangelizzazione ci de­ve essere, dovrebbe dunque riguardare prima di tutti gli uomini e le donne della Chiesa, responsabili purtroppo — in molti, troppi casi — dell’allontanamen­to dalla fede di tante persone di valore. Forse è il momento di capire che non è la quantità dei sacerdoti, ma è la qualità a fare la differenza. E la qualità non di­pende dalla preparazione teologica, dai convegni, dai master accumulati, ma dal­la purezza dell’anima che si arrende alla Grazia. Un’anima arresa è un’anima che converte, che disseta. Un’anima che traf­fica, organizza, o si assopisce sui suoi pri­vilegi, è un’anima che allontana.

Viene il sospetto che questo nuovo di­castero rischi di diventare soltanto l’en­nesimo coperchio messo sulla pentola, per non guardare quello che bolle den­tro. Nuove cariche, nuovi poteri, nuovi segretari, nuovi bilanci. C’è davvero biso­gno, è questo che avvicinerà la gente? O c’è bisogno piuttosto di una grande cura di umiltà? Cancellare i moralismi, i pre­giudizi, la pigrizia, la sete di potere e tut­ta quella zavorra che nulla ha a che vede­re con la fede e appesantisce e rende tan­to ostile il cattolicesimo agli uomini con­temporanei. I nostri tempi hanno biso­gno estremo di santità, come ha detto il Papa di recente all’anno sacerdotale, per­ché davanti alla cosificazione dell’uomo, è l’unica condizione che Io riporta alla straordinaria grandezza per cui è nato. Santità non è un’inerme arrendevolezza, ma è una forza di pienezza, un essere del­l’uomo nella totalità compiuta dei suoi pensieri e dei suoi sentimenti, capace co­sì di compiere ogni suo atto nella luce dell’amore

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